• Sydney, Manly e l’alito del Drago

    Non essendo riuscito a combinare troppo ieri sera, la mattina vorrei alzarmi prestissimo per sbrigare quella valanga di arretrati che si sono già accatastati sulla mia scrivania virtuale. Impossibile, di contro, dormire troppo poco, considerata la ricca giornata che ci aspetta. La luce del sole entra già abbondante dalle finestre, prive di un efficace sistema di schermatura; prima che faccia effetto, la sveglia continua a ripetersi noiosamente per una quarantina di minuti, con buona pace dei miei compagni di stanza.

    Ho ormai meno di un’ora per occuparmi di tutto, e finisco col badare alla parte più urgente dei pedaggi autostradali; visto che ne dovremo pagare anche altri, e che costituiscono un argomento di sicuro interesse (e divertimento), rimando ad un apposito post la loro trattazione.

    Inizio a sospettare che i miei compagni di viaggio abbiano la fissa dello yogurt, visto che qualcuno va apposta a prenderne per tutti e che è stato anche il nostro principale alimento a Jervis Bay. Ci occupiamo di recuperare le nostre cose; non posso esprimermi per le ragazze, per me e Stefano già immaginate una sorta di caccia al tesoro sul caotico pavimento della nostra camera… in effetti, nei proseguire dei giorni ho avuto l’impressione di non ritrovare un certo numero di indumenti secondari, ma, non avendo fatto la conta dei pezzi prima della partenza, come i chirurghi prima di un’operazione, temo rimarrò per sempre col dubbio.

    Siamo diretti a Sydney e dobbiamo spostare la macchina, ché dove l’abbiamo parcheggiata ieri sera possiamo trattenerci solo un tot (e in realtà abbiamo pure sforato il limite… della serie italiani all’estero). Qua non hanno mica il disco orario: la pattuglie passano e prendono nota, e se ti ribeccano oltre il limite sei in multa. Pro e contro del sistema? Ad occhio mi sembra piuttosto inefficiente, ma certamente avrebbe il merito il sgamare i dischi truccati o i “dischi orari solari” (ed è la seconda volta che citiamo questa canzone sul blog!)… ma non ci troviamo dalla parte del mondo sbagliata per avere di questi timori?

    Aspettiamo Christiaan, cui abbiamo promesso un passaggio. Si riorganizza il backpack, lo mettiamo nel portabagagli (non senza difficoltà), e con almeno un’ora di ritardo sul programma finalmente partiamo. Ancora mi chiedo se in tutto abbiamo fatto cinquecento metri o persino di meno prima di riparcheggiare, tra l’altro su una discesa piuttosto ripida, da risalire immediatamente, per Christiaan con lo zaino in spalla… italiani sòle, secondo me gli conveniva partire da solo. Ci facciamo insieme un pezzetto di strada a piedi, ma poi noi prendiamo l’autobus e lui continua a piedi, nel suo lento cammino, che lo porterà sulle nostre stesse orme a giorni di distanza ed oltre: beato lui! Per conoscere gli sviluppi del suo viaggio, studiatevi un po’ di olandese ed iniziate a seguire il suo blog.

    Impieghiamo quasi un’ora per arrivare delle parti di Young St: domanda da turisti all’autista che si è fermato al capolinea “Dov’è la Opera House?” (ovviamente in inglese, NdR); dovrebbe essere vicinissima, ma da qui non si ha l’impressione sia a un tiro di schioppo, o, come direbbero qui, within a cooee, cioè nel raggio di un “cooee”, cioè il tipico urlo australiano che si lancia nel bush per attirare l’attenzione, ricercare scomparsi o comunicare la propria posizione!

    In fondo alla discesa, la sopraelevata Cahill Expressway e i moli sulla Sydney Cove ancora nascondono la vista dell’acqua e, defilata sulla destra, si trova la struttura architettonica più famosa d’Austalia ed una delle più famose del mondo. Costeggiando la baia, arriviamo finalmente alla Sydney Opera House, che a dire il vero da vicino fa tutto un altro effetto; le “vele”, che secondo autorevoli fonti vele non sarebbero affatto, come potete vedere risultano impressionantemente a misura d’uomo. Manifesti della Butterfly mi invogliano, ma non oso immaginare quanto venga un biglietto, e per fortuna la nostra brevissima permanenza non mi pone veramente nel dilemma.

    Tornando indietro ci fermiamo ad un chioschetto, dove fortunatamente troviamo una cameriera italiana, che mi capisce (non solo linguisticamente, ma culturalmente) e cui posso chiedere quello che voglio: un ristretto da consumare alla barra, prodotto per veri italiani e una modalità che qui non usa… Ed anche del caffè, prima o poi, dovremo dedicare un post apposito.

    Mentre ci dirigiamo dall’altro lato della Sydney Cove, per provare a dare uno sguardo al famosissimo ponte da vicino, magari da sopra, iniziamo a tenere una andatura randomica e credo da questo a renderci conto che, a differenza di Melbourne, Sydney è una città che per essere capita richiederebbe almeno una settimana… Confermo una certa “somiglianza sentimentale” (più che fattuale, non fosse che per la maggiore quantità d’acqua) tra questa città e Roma; una connazionale mi ha fatto osservare per un qualcosa nella luce.

    Una delle cose che ho trovato più ridicole è stata la diffusa presenza di “monumenti” della medesima forma di rinoceronte, “decorati” con differenti pattern di colore (come agli europei deve alle volte essere capitato di vedere similari progetti artistici “a base di mucche”): evidentemente è necessario il cartellino “This Rhino is a work of art.”, altrimenti in pochi ci sarebbero arrivati e dunque in molti sarebbero stati indotti ad arrampicarcisi sopra, rischiando così di danneggiare queste opere d’arte (il cartello continuava sviluppando appunto questi concetti in forma di divieto ed avviso).

    Dopo un certo girovagare, decidiamo ché dobbiamo sbrigarci a prendere il traghetto per Manly, un altro famoso sobborgo/spiaggia abbastanza vicino. Arriviamo dal lato interno, delle insenature per intenderci, ed attraversiamo lo stretto lembo di terra che ci conduce all’oceano.

    Stefano decide che i suoi jeans sono troppo lunghi, per tanto, con il coltellino svizzero che Anna porta sempre con sé, inizia a tagliare via le estremità dall’altezza del ginocchio. Per un breve periodo, va in giro con un paio di jeans asimmetrico, finché non arriviamo in un fish and chips express , dove, mentre dobbiamo aspettare, completa l’opera, mentre adulti e soprattutto bambini lo guardano stupefatti. Una signora, a lavoro compiuto, si congratula “A good job!”.

    Mangiamo all’aperto, come sempre circondati da minacciosi gabbiani, e poi proseguiamo a destra, sulla Marine Parade, dove troviamo alcuni lucchetti d’amore, che per la modica quantità non competono nemmeno nella stessa categoria peso di quelli mocciani di Ponte Milvio; un sacco di graziose sculture, perlopiù in metallo, raffiguranti soggetti marini (vedi anche su Facebook per ulteriori immagini); e che ci conduce ad un piccolo, grazioso promontorio, dimora del Drago, che per farsi avvicinare richiede la nostra faticosa scalata, senza agevolarci col suo magico alito.

    Dell’Intellagama lesueurii, prima noto come Physignathus lesueurii (scienziati indecisi!), il “drago acquatico orientale” o “australiano”, pare manchi, ancora una volta, un nome ufficiale italiano.  Ne incontriamo un paio: il primo, a suo agio lungo la “scalinata” di rocce che percorriamo, pare così abituato ai visitatori che nemmeno si scansa al nostro passaggio (e d’altronde è casa sua); il secondo, più indeciso, alla fine scappa per il solo muoversi di un’ombra. Ma credo di averne visto un altro della stessa specie, ma assai più grosso, un migliaio di kilometri più a Nord: ancor più sfacciato, nel pieno centro cittadino, al bar, ai piedi di una avventrice, con il suo sguardo da rettile non così chiaramente decifrabile, ma che secondo me intendeva “Insomma, dai da mangiare anche a me?”. Anche per questo motivo sono entrati a pieno titolo nella classifica degli animali che mi stanno simpatici.