• Wick(e)d, in the Marvelous Land of OZ

    Prima di tutto, “wicked” non è un participio passato; per questo mentre camminiamo Isabelle continua a ridere tutte le volte che pronuncio “wickd” invece di “wick-éd”. La ‘e’ si pronuncia (per altro i) dopo la ‘t’ (wanted), a meno che non si sia di Manchester, ricordo dalle superiori… ma niente “I wicked you!” o “You’ve been wicked!”.

    Trattasi di un aggettivo, che dopo qualche approfondimento scopriamo significare “evil or morally wrong”… insomma, “malvagio”, come la Strega dell’Ovest, protagonista di questo prequel musicale de Il mago di Oz. (E, se credevate, come me, che fosse semplicemente la versione musicale de Il grande e potente Oz, vi sbagliavate di grosso! Qua verdi si nasce.)

    Da mesi le locandine tappezzano Melbourne, appunto di verde, per promuovere l’evento, ed io mi ritrovo vittima di quella curiosità, che è rimandabile fino a quando scopri di essere all’ultima settimana di programmazione e non puoi più farci niente; dopo aver perso un’occasione dopo l’altra, mi ero ripromesso di tentare finalmente lo scorso giovedì sera.

    Izzy, che avevo incontrato per un tipico pranzo delle quattro e mezza del pomeriggio, a base della miglior chicken parmigiana di Oakleigh (qua sounds italian una bella cotoletta fritta impanata potremmo dire “alla pizzaiola”), era libera ed è voluta tornare a vederlo!

    L’idea era di tentare la fortuna al box office, sperando ci fosse posto ed ad un prezzo abbordabile (prezzo pieno 120$!), ma i biglietti in coppia più economici partivano da un 50% in più di quanto avevamo deciso di spendere per la serata. Un attimo di riflessione, un secondo giro in fila, e degli efficaci occhioni da giovani squattrinati amanti dell’arte commuovono una cassiera, che complice ci domanda “Conoscete la parola d’ordine per avere i biglietti in offerta, vero?”: “Hmm, YES-SSS!”. La serata già si prometteva wicked.

    Già il foyer è di una eleganza moderna a cui non sono (stato) abituato: tutto è intonato e verde, persino i cocktail. Quando arriviamo ai nostri posti, già si vede un palco ricchissimo, senza un sipario a nasconderlo, con una scenografia sontuosa, ricca ed eccessiva… nel senso letterale che contiene persino elementi non presenti nel racconto, come un enorme drago volante ad incorniciare la scena (in verità, forse appena nominato all’inizio del primo atto…), probabilmente messo lì per creare tensione (Mario, tu mi capisci).

    E poi, senza clamore né trombe, dopo un sintetico annuncio con il solito avviso di spegnere i cellulari (ma sia che sia dato tempo di procedere ai sovrappensiero), lo spettacolo comincia, puntualissimo, in una magia scenografica che sfiora il cinema puro: chi l’ha detto che –dotati di una potenza economica alle spalle– il teatro non possa avere cambi di scena repentini, effetti speciali e “cambi di inquadratura”, tanto meglio se in corsa? La Strega del Sud scende, col suo carattere buono ma zuccherosamente insopportabile, cantando nella sua “bolla di sapone” (striga ex machina); e vogliamo parlare della chiusura del primo atto, dove la malvagia (?) Strega dell’Ovest, in pieno sfregio alla gravità, se ne vola via cantando uno dei pezzi più emozionanti dell’opera? In tutto questo, non c’è un momento in cui lo sfondo non si modifichi in maniera incredibile; entri della ingombrante scenografia mobile (con una puntualità che il Teatro dell’Opera di Roma sta ancora metabolizzando, mentre l’orchestra attende, col palese imbarazzo del direttore, un semplice videoproiettore per riprendere il filo del Mefistofele), che ruota più volte su sé stessa appunto per “cambiare inquadratura”, censurare un punto di vista (ad esempio di un parto) e tornare magari sullo stesso pochi secondi dopo; o delle scimmie alate non volino intrecciandosi sopra ai cantani, o in mezzo ai cantanti quando si trovino anch’essi in volo (solo da quando alle scimmie sono “spuntate” le ali, in scena, si intende!); il drago, di cui vi dicevo sopra, alcune volte commenta la sua agitazione, altre volte si limita a fissarvi con i suoi penetranti occhioni di bragia…

    Insomma, la morte del teatro; almeno secondo Ross, che così mi commenterà il suo sdegno per ciò che sono andato a vedere.

    Ma, a parte la perizia tecnica e la sincronia da circo in un qualcosa che tanto prevede anche di canto ed interpretazione, come posso non apprezzare una dedizione che traspare da ogni singolo teatrante in scena (ed è al contempo invisibile e per questo chiara dell’ottima squadra di tecnici che manovra il tutto)? Non c’è una sola dannata scimmia alata che sia disposta a distogliere il pubblico dall’immersione nel magico mondo di Oz con un movimento imperfetto; una dedizione così estrema, da parte di tutti, insomma, che ho la sensazione di una certa “meccanicità” e “ripetibilità”, qualcosa che sfiori almeno una rinuncia (pur temporanea) della propria persona, senza che spazio sia concesso al gesto spontaneo, dell’occasione o del genio: essere pienamente a servizio dell’opera e della rappresentazione. Anche se da europeo forse mi pare un po’ estremo, come avrei potuto non battere le mani?

    Menzione speciale alla canzone del mago sulla realtà: una morale non dico da Matrix ma quanto meno da Codice Swordfish (in chiave Oz-musicale, ovviamente!) che risolve anche il conflitto tra Jack e Ross sull’argomento.

    In fin dei conti, cosa posso dire? Ne ho letti tanti di commenti, ma il seguente della mia amica Ashleigh è quello che meglio descrive il mio attuale stato d’animo: «Currently in a state of Post-Wicked depression.».

    Marvelous, come il mondo di Oz.
    Wonderful, come il mago e la canzone.

    Thank you Izzy! Se non era per te, andava a finire che me lo perdevo.

    P.S. Come vi ho già raccontato, qua l’Australia è soprannominata “Oz”: un motivo ci sarà…

     

    NOTE
    Picture courtesy by Izzy.
    – Primo post che rompe l’ordine cronologico dopo il “discorsetto con Cartesio”: per gli amanti della relocation, torneremo presto a soddisfare le vostre curiosità, ma era ora di darci un taglio e ritrovarci nel presente, seppur a caro prezzo.